Note dal seminario Rompere i blocchi (Roma, 24-26 maggio 2024)
Giso Amendola

1.
Nel maggio 2024, a un anno e mezzo dall’invasione dell’Ucraina e a otto mesi dal 7 ottobre e dall’inizio del massacro condotto da Israele nella striscia di Gaza, Euronomade ha organizzato un seminario di tre giorni, per mettere alla prova alcune ipotesi di lettura di una fase in cui la guerra costituisce il centro del panorama globale. Il titolo scelto per il seminario è significativamente programmatico: “rompere i blocchi” dichiara in partenza l’intenzione di produrre un’analisi che vada oltre la lettura corrente, quella prodotta in termini per così dire di “geopolitica volgare”, per cui il mondo sarebbe ormai diviso in blocchi autosufficienti, omogenei al loro interno, ciascuno animato da una sua logica espansiva che ne produce inevitabilmente lo scontro. L’ipotesi interpretativa da cui è partito il seminario è che un’immagine di questo tipo non rende conto dell’intreccio complesso tra dinamiche globali, a cominciare da quelle del capitale mondiale e delle catene produttive e distributive, e riconfigurazioni locali, e offre un’immagine statica e precostituita di spazi regionali che sono invece continuamente prodotti e attraversati da conflitti di diversa scala.
È innegabile, ovviamente, che siamo davanti a un mondo frammentato. Ma questa frammentazione non liquida la dimensione globale: ne richiede invece una nuova interpretazione. L’ipotesi di fondo che ha assunto il seminario è che il presente segnato dalle crisi belliche sia comprensibile solo sullo sfondo della fine dell’egemonia americana. Il modello offerto dal “sistema-mondo” di Wallerstein e Arrighi ha insistito sullo spostamento dei centri di egemonia come modo per spiegare le diverse fasi di sviluppo e di trasformazione del capitalismo globale. La transizione tra un centro egemonico e l’altro è caratterizzata appunto dalle guerre, che hanno come posta in gioco precisamente la riconfigurazione degli assetti globali e delle loro regole.
La crisi dell’egemonia americana, però, a differenza del quadro interpretativo offerto dalle transizioni egemoniche del sistema-mondo, pone il problema non solo dell’esaurimento di uno specifico centro egemonico, quanto della impossibilità della produzione stessa di nuovi centri egemonici. La transizione non appare più un periodo di incertezza tra un’egemonia e l’altra, ma, più radicalmente, tra un assetto globale egemonico e uno post-egemonico. Diventa difficile allora pensare la guerra come un interregno momentaneo, cui seguirà il riassetto in seguito a una qualche ristabilita egemonia di uno dei blocchi: “rompere i blocchi” significa, in questo primo senso, pensare invece un mondo radicalmente post-egemonico, e non continuare a immaginare semplici traslazioni di egemonia tra blocchi diversi.
2.
Il mondo in guerra, letto sullo sfondo di questa assunzione radicale della “crisi egemonica”, non può allora essere interpretato con i concetti con cui i movimenti globali hanno tematizzato la guerra negli anni Novanta e Duemila. La prima sessione del seminario ha chiarito che guardare oggi alla dimensione globale delle guerre ha poco a che fare con le “guerra globali” cui reagivano i movimenti no war di quegli anni. Le guerre per i diritti umani, contro gli stati-canaglia, erano tutte spiegabili a partire dal tentativo di tenere in ordine la governance globale, e di riprodurre quell’ordine ricorrendo alla guerra preventiva contro i rischi, attuali o anche solo potenziali, che lo minacciassero: al contrario, le guerre attuali non rispondono a un ordine globale predefinito, emergono invece esattamente nei punti di crisi dei tentativi egemonici. Nessuna funzione “costituente”, quindi, rivestono le guerre attuali, in quanto non difendono alcun ordine globale dato, né possono aspirare a produrne uno nuovo: emergono invece precisamente dalle molteplici fratture non ricomponibili di quell’ordine. Le guerre attuali non rispondono ad una logica unificante, e tantomeno è possibile cercare una logica strategica omogenea che le riduca ad espressione di un disegno unitario. Ucraina e Palestina non sono certo espressioni di una unica guerra globale, se con questo si intende un unico disegno strategico. Cosa significa quindi dimensione globale della guerra in un contesto post-egemonico?
Parlare di regime di guerra intende rispondere a questa domanda. Il regime di guerra è, da un lato, la caratterizzazione di fondo dell’attuale fase dei rapporti globali. Non che, come sostiene una certa semplificazione mainstream, la globalizzazione sia finita, o si sia improvvisamente interrotta. Quello che con “regime di guerra” si intende, in prima battuta, è che la riconfigurazione dei rapporti globali, a cominciare dalla riconfigurazione delle catene produttive e distributive del capitale globale, produce continuamente guerra proprio come conflitto sulla regolazione di quegli assetti. In questo senso, durante il seminario è emersa una ridefinizione importante dell’ormai diffuso riferimento al multipolarismo come configurazione generale del mondo “dopo” la crisi della capacità egemonica americana. La versione ideologica, che piace molto alle nuove e vecchie destre (oltre ad animare qualche farneticazione “rossobruna”…), legge il mondo multipolare come un mondo spartito tra grandi spazi omogenei al loro interno, politicamente e culturalmente, e incommensurabili fra loro. In realtà, il regime di guerra mostra invece la natura decisamente instabile del multipolarismo, che appare piuttosto, come un multipolarismo centrifugo (secondo la definizione offerta da Adam Tooze): tutt’altro, ancora una volta, che l’immagine di un mondo suddiviso stabilmente in blocchi confinati e chiusi. La guerra qui prova a riconfigurare continuamente rapporti e spazi, precisamente nell’impossibilità di una nuova stabilizzazione egemonica.

© Carta di Laura Canali - 2024 -Limes

3.
Mentre prova a riconfigurare gli spazi globali post-egemonici nei loro confini esterni, il regime di guerra produce continuamente un irrigidimento dei confini interni degli spazi in conflitto. Ricostruisce attorno alla guerra il funzionamento dell’accumulazione capitalistica: l’economia di guerra segna così la ristrutturazione dei rapporti economici, indirizzando una generale riconversione produttiva (il seminario vi ha dedicato la seconda sessione di discussione). La stessa forzatura dei vincoli dell’austerity assume, nel regime di guerra, il segno del rafforzamento dell’apparato militare-industriale: del resto, i movimenti nell’università hanno fatto emergere con forza la pervasività del regime di guerra nell’orientare e riassemblare ricerca e industria militare. Non solo, quindi, emerge l’alternativa tra welfare e riarmo: il regime di guerra comporta una controrivoluzione rispetto alla riconversione ecologica e alla priorità della riproduzione che sono comunque emersi come terreni inaggirabili nella policrisi finanziaria, ecologica e sanitaria. Anche sul versante dell’economia di guerra, si registra tutt’altro che un ritorno ad economie “nazionali” e ad operazioni esclusivamente nel segno della riconfigurazione dello spazio economico intorno a blocchi omogenei: emerge piuttosto un conflitto tutt’altro che stabilizzabile tra riconversione militare e riconversione eco-sociale, lungo catene produttive la cui dimensione globale rende instabili e contraddittori tutti i tentativi di rinazionalizzazione delle economie. La crisi egemonica anche sotto questo aspetto non si riterritorializza lungo blocchi omogenei, nonostante tutti i tentativi, spesso più proclamati che condotti a termine, di reshoring: piuttosto rende conflittuale il sistema monetario globale, e rende terreno di lotta aperto la questione della moneta internazionale di riferimento.
Infine, il regime di guerra, nel suo versante interno, produce l’irrigidimento delle gerarchie sociali, la chiusura nazionalista intorno ai valori tradizionali, il moltiplicarsi delle guerre culturali, che predicano un impossibile ripristino di identità “originarie”, minacciate dall’avanzata delle trasformazioni sociali e dalle lotte dei movimenti. Qui la retorica dei blocchi diventa direttamente un dispositivo di continua produzione di fittizia omogeneità sociale: lo testimonia il richiamo insistito allo scontro di civiltà, non più inteso come “diagnosi” analitica à la Huntington, ma come attiva produzione di logica di guerra integrale. I diversi blocchi, in questo senso, riproducono sul versante interno la medesima logica reazionaria: così il presunto scontro tra democrazie e autocrazie rivela una medesima logica omologante, in cui i blocchi nemici finiscono paradossalmente per assomigliarsi, e le democrazie liberali, proprio mentre proclamano la mobilitazione permanente in nome della propria superiorità morale, sono investite da profonde torsioni neoautoritarie. Le guerre culturali mostrano però anche come il regime di guerra faccia presa immediata sulla produzione di soggettività: i blocchi stessi sono continuamente costruiti su quel terreno. Per i movimenti di contestazione del regime di guerra, il terreno delle guerre culturali, della produzione e riproduzione delle identità, non può in nessun modo essere derubricato a terreno meramente “culturalista”, astratto rispetto alla realtà dello scontro “materiale”. Il regime di guerra vive come cattura della produzione di soggettività, come già Deleuze e Guattari segnalavano ponendo al centro della loro analisi la produzione di microfascismi.
4.
Durante l’intero seminario, la decostruzione dei blocchi – condotta come interpretazione dello scenario post-egemonico, come analisi dell’economia di guerra e come attraversamento delle guerre culturali e della produzione di soggettività – è stata continuamente messa in tensione con l’emergere di nuove pratiche internazionaliste. L’immaginario di un mondo dominato da blocchi omogenei e compatti – come è quello che domina certe interpretazioni semplificatorie e unilaterali della geopolitica, e che anima di sicuro la lettura ideologica del multipolarismo – non può che produrre, a sua volta, una messa fuori campo delle pratiche internazionaliste. Al massimo, si potrà sviluppare un tradizionale internazionalismo inteso come pratica di solidarietà internazionale. O, nell’ipotesi peggiore, quella che un tempo si definiva campismo, si finisce per scegliere il blocco che appare “nemico” del nemico, affidando alla logica tutta ristrettamente geopolitica e interna al regime di guerra la speranza di una resistenza alla guerra stessa. Se, al contrario, si decostruiscono i blocchi e si guarda ai conflitti contro l’oppressione e lo sfruttamento che li attraversano, sovvertendo la geografia dei grandi spazi geopolitici dati ideologicamente per omogenei, l’internazionalismo può essere reinventato come pratica di connessione di movimenti e, insieme, di immaginazione di geografie politiche alternative a quelle continuamente riprodotte dal regime di guerra. La Global Palestine, come spazio che connette soggettività diverse e che attraversa i movimenti globali esistenti, dal transfemminismo intersezionale ai movimenti ecologisti, incarna la forma che attualmente riesce ad approssimare meglio questo nuovo internazionalismo. Un movimento di opposizione al regime di guerra oggi può certo convogliare il dissenso attorno alle politiche di riarmo, che coinvolgono in primo luogo ora l’Unione Europea: ma difficilmente un campo politico di critica del regime di guerra potrà svilupparsi se non radicandosi – tagliando le configurazioni geopolitiche e i blocchi – nei grandi movimenti globali che hanno attraversato la policrisi, e che portano l’opposizione alla guerra all’interno dei blocchi stessi, lungo le linee di conflitto di razza, genere e classe.

La divisione dell'Europa ai tempi della Cortina di Ferro